Stefania Camurri è tante cose. Ma per buona parte della sua vita, si è sentita solamente ‘tanta’. In un mondo in cui la parola obesità nasconde e sottintende una colpa imperdonabile, lei è un regalo da spacchettare. Il suo libro non è una confessione. E’ il racconto di un percorso che ancora non è finito. Perché le donne, e Stefania anche di più, non si fermano mai.
SONO UNA CHEF CHE NON PUO’ ASSAGGIARE I SUOI PIATTI
“Cenerpentola”. E’ questo il titolo del libro pubblicato da Albatros. E’ appena uscito. Ed io lo ammetto: l’ho letto in una mattinata. Con la matita tra le dita. Ho sottolineato qua e là. Ho riletto per capire, mi sono fermata per tornare indietro su alcune parole, altre le ho divorate veloci. Stefania Camurri scrive della propria fisicità abbondante, della sfida con il cibo, della battaglia per arrivare a una normalità che, molto probabilmente, non esiste. La sua testa ragiona ancora da obesa, anche se non lo è più. Lo specchio continua a non soddisfarla anche se per gli altri è oggettivamente bella. Un cortocircuito che ha condizionato tutto il suo quotidiano ma che nel lettore si materializza insieme all’immagine del tacco 12 in copertina e alla collezione (questa reale) di scarpe.
Stefania è una chef che non può assaggiare i propri piatti. Li fa assaggiare ai figli – quando serve, quando è necessario per aggiustarli di sale – dopo che li ha creati come un pittore sulla tela. Sono frutto di studio, di idee. Non li può assaggiare perchè non digerisce niente che non siano creme, pappine e gelato. “Sono come un alcolizzato che spilla le birre”. Negli anni Novanta una operazione sperimentale ha dimezzato il suo peso ma le ha tolto il piacere della tavola. Lo ha coltivato comunque: nel suo dna c’è la ristorazione, una storia familiare di sacrifici e sapori. Una storia che parte da lontano ed è attraversata anche da una fuga. Stefania è originaria di Carpi ma ha scelto la Toscana. Il suo ristorante – “Mamanonmama” – è a Campiglia Marittima. Ci è arrivata “girando per borghetti” dopo aver lasciato Carpi distrutta dal terremoto.
La mia storia: un esempio imperfetto, contraddittorio e tuttora irrisolto
“Il mio ristorante era inagibile, abbiamo vissuto un mese e mezzo nelle tende. Dovevo trovare da lavorare e ho deciso di fare una stagione sul mare. San Vincenzo, avrei dovuto stare via pochi mesi. Ma poi ho scoperto Campiglia. C’era un locale, mi vedo ancora davanti alla vetrina sognare di poterlo avere tutto per me. Dopo qualche anno è successo davvero. E con figli e compagno ci siamo trasferiti”. E questo è un pezzo di storia di Stefania. Prima c’è l’adolescenza con il disagio della diversità, gli anni trascorsi a nascondersi nel banco in fondo o a evitare le sedie con i braccioli (cosa che fa tuttora), il sogno infranto di poter fare la hostess sugli aerei (“Ma quando si è mai vista una hostess obesa?”), quello realizzato di un’operazione chirurgica per cancellare la vergogna. Stefania ci si butta a capofitto: è quasi una ‘cavia’, tanto gli interventi in quel momento erano sperimentali. La sua vita cambia, si sente potente e libera, ma il prezzo da pagare c’è e diventa evidente in poco tempo. Una battaglia che non finisce: adesso Stefania non si siede più al banco in fondo ma vicino al bagno perché sa che, probabilmente, dopo i primi bocconi, vomiterà.
Ha tante amiche preziose, come Valentina Bezzi, psicologa e sessuologa con cui ha creato un blog tutto al femminile, anche lei ‘adottata’ dalla Val di Cornia e che ha scritto la post fazione del libro. Ha un nido che è il suo ristorante. Quel che ne esce dalla lettura è che la storia di Stefania è quella di una donna. Senza aggiungere altro. Di quelle donne la cui contesa interiore non si pacifica mai del tutto ma che di questo sono assolutamente consapevoli. “E per quella che è stata la mia esperienza, spero di poter essere un esempio per qualcun altro. Un esempio imperfetto, contraddittorio e tuttora irrisolto”.